Lascio l’isola di Koh Rong Sanloem tra party, saluti, lacrime, abbracci, sorrisi, gioia e tristezza.
In una situazione sentimentale complicata, come direbbe Facebook.
Il giorno dopo vado a festeggiare il compleanno di un caro amico a Chi Phat, una piccola eco-community ai piedi delle Cardamom Mountains, immersa nelle foreste cambogiane. Il “un giorno”, che avevo pianificato di restare, come spesso mi accade, sono diventati tre. Al mio arrivo, in attesa del mio amico, non posso resistere alla tentazione di noleggiare una bicicletta e esplorare i dintorni. Nel giro di dieci minuti arrivo nelle sponde di un fiume, che un gruppo di locali ha scelto come base per un picnic a base di bbq e birre. E con base intendo proprio il fiume, non le sponde. Con un allettantissimo “Come here, beer”, mi chiamano e mi accolgono nel loro picnic. Passo dunque il resto del pomeriggio con loro. Niente esplorazione dei dintorni.
Spendo i restanti giorni immerso nella natura a fare birdwatching, trekking, mangiare prelibatezze locali a base di formiche – il tutto bagnato con il tradizonale vino di riso locale che sa di distillato di acqua di olive – e a fare escursioni sul fiume su delle barchette che non promettono niente di buono. Le notti si va a letto presto visto che alle undici il villaggio rimane senza elettricità.
Vado poi a Phnom Penh per salutare altri amici e organizzare la partenza.
30 Novembre 2016: lascio la Cambogia dopo esattamente otto mesi e dieci giorni.
Sveglia alle sei, ma poco male visto che appena salgo nel bus mi addormento fino a che non arriviamo al confine. Sbrigo i convenevoli burocratici e al mio rientro sul bus una signora vietnamita di mezza età mi offre, con un sorriso sdentato, un seme nero, simile a una bacca di mirto ma leggermente più grande e ovale. Che bel benvenuto in Vietnam, penso, alla faccia di tutti quelli che dicono che i vietnamiti siano inospitali. Apro il seme e ne mangio il contenuto: mi sembrava di mangiare proprio una bacca di mirto! Si, una bacca di mirto non matura, acerba, secca, che ti lascia la bocca asciutta come se stessi mangiando una banana non matura. Sorrido e ringrazio per il gesto, giusto per non fare l’irriconoscente, ma me ne pento subito dopo, appena vedo la simpatica signora, compiaciuta, che mi offre un intero ramo. “Uh grazie mille”, le dico, mentre mi sforzo a mangiarne un secondo. Mannaggia a me e ai buoni modi.
Arrivo nell’immensa Ho Chi Minh (Saigon) intorno all’ora di pranzo. Orrore, scopro che qui non esistono i tuk tuk! Vado quindi in ostello in motodap e incontro Angy e Noe, due amiche con cui avevo appuntamento.
I bambini in divisa, gli scooter che sfrecciano in ogni dove, i bistro ai lati delle strade e gli animali in vendita in qualsiasi angolo mi fanno sentire a casa (in Cambogia). Subito noto però delle differenze: i bambini indossano le scarpe, tutti guidano con il casco e i galli non saltellano felici nei marciapiedi ma sono rinchiusi in gabbie. Il traffico di Ho Chi Minh non è quello di Phnom Phen; è quello di Phnom Phen, di New York, di Bangkok, di Roma e Nuoro messe insieme. Anche qui niente regole, o quasi. Gli scooter padroneggiano nelle strade e se ne fregano dei semafori rossi o dei pedoni, nelle rotonde c’è la più totale anarchia.
Ma non mi lamento visto che presto sarò parte di questa comunità: passiamo infatti il pomeriggio a cercare delle moto da comprare e poter così visitare il Paese in stile ‘i diari della motocicleta’.
Che io non abbia mai guidato una motocicletta e abbia messo il sedere su uno scooter solo un paio di volte in tutta la mia vita, sono dei dettagli irrilevanti.
Il giorno dopo faccio il turista. Mi perdo per le strade della città a sparaflesciare le anziane venditrici di cibo di strada con i cappelli tipici, il traffico e gli edifici decadenti.
Non ero più abituato a dover usare google translator per comunicare, camminare con la borsa messa davanti e le mani in tasca per paura di essere scippato!
Visito poi il ‘War Remnants Museum’ (prima si chiamava ‘Musuem of Chinese and American War Crime, ma a qualcuno – chissà chi – non piaceva questo nome). Con soli settantacinque centesimi di dollaro sono riusciti a fomentare il mio odio verso il genere umano e i governi (ok uno in particolare, ma non dico quale per non offendere i miei amici americani). Dopo due ore di massima depressione esco all’aria aperta e continuo il mio tour turistico per le vie della città.
Mi fermo in una bancarella e cosa trovo? Dei dolci simili ai Savoiardi! Ne compro due pacchi e, indeciso se tenerli o meno per fare un tiramisù (non saprei proprio dove), ne apro un pacco e inizio a sgranocchiarli con una faccia compiaciuta come se stessi mangiando caviale e aragosta.
Non passano neanche ventiquattro ore che già mi stufo dei ‘ehy my friend, where you go?’, ‘marjuana, cocaine, hostel, cigarettes, happy hour my friend‘. Dopo aver contrattato per ore, prendiamo le nostre moto e, con la speranza di riuscire a metter piede fuori dalla città e con la paura che non si stacchi una ruota o che non ci fermi la polizia (visto che non potremmo guidare senza una patente di guida vietnamita) – ci dirigiamo verso i tunnel sotterranei di Co Chin a una quarantina di chilometri a nord di Ho Chi Minh.
Percorriamo sessanta chilometri, dopo innumerevoli – troppe – deviazioni, in cinque ore sotto una pioggia incessante. Uscire dalla città è stata un’impresa di sopravvivenza, mai avevo visto tanti motorini ammassati tutti insieme. Una volta arrivati a destinazione facciamo fatica a trovare un posto che accontenti le esigenze culinarie di tutti (ricordate, mai e poi mai viaggiare con dei vegetariani), per poi finire in un motel trovato all’ultimo momento, al modico prezzo di un dollaro e mezzo a testa. Per questioni di sicurezza ci fanno mettere le moto dentro la stanza!
Il giorno dopo, alle sette del mattino, ci svegliamo e ci presentiamo alle porte dei famosi Co Chin Tunnels, manco fossimo al concerto di Vasco Rossi. Per chi non ne avesse mai sentito, i Tunnel di Co Chin sono circa 250 km di tunnel sotterranei – una vera e propria città – che i Vietcong hanno costruito nell’arco di vent’anni, per nascondersi e difendersi dagli attacchi di quei bast..degli americani. Siamo ovviamente i primi ad entrare e, per fortuna, delle orde di koreani bramosi di intrufolarsi nei tunnel neanche l’ombra.
Facciamo un tour turistico dei tunnel e la guida ci spiega la complicata organizzazione e la vita sotterranea che conducevano i Vietcong, fomentando ulteriormente il mio sopracitato odio.
Ci dirigiamo poi verso il nord, attraversando strade sterrate, fiancheggiando laghi con viste mozzafiato, facendo lo slalom tra bufali, buche, venditori di strada (in senso letterale) e facendo gare con i locali che impazziscono a vedere degli stranieri in moto. Arriviamo quasi per caso ai piedi della Black Virgin Mountain, una montagna di poco più di mille metri e facciamo un po’ di trekking. Al nostro rientro incontriamo un vietnamita americano. Ci racconta di lavorare nell’esercito statunitense e di aver fatto diverse missioni negli ultimi anni. Rimango sbigottito dal fatto che riesco a parlarci per più di dieci minuti e addirittura beviamo alcune birre insieme.
È incredibile come tutte le persone che incontriamo ci dicano di fare attenzione e di non fidarci di nessuno. Scopro poi che tutto questo allarmismo è dato non solo dalla microcriminalità che dilaga in tutto il Paese ma anche da un incessante terrorismo mediatico.
Ai piedi della montagna troviamo una sorta di monastero buddista dove chiediamo ospitalità, dato che la nostra idea di campeggiare nelle foreste della montagna è stata bocciata dai locali. Dopo lunghe trattative riusciamo a trovare un posto sicuro con tanto di monaco che, dormendo nella sua amaca, ci fa da guardia per tutta la notte.
Il giorno dopo percorriamo più di centocinquanta chilometri. E vi posso assicurare che, essendo il Vietnam un Paese sovrappopolato e piuttosto caotico, è un’impresa non da poco. Attraversiamo ponti, prendiamo traghetti, facciamo slalom tra bambini, bufali, mucche, venditori ambulanti, anziani e donne che, rigorosamente contromano, trasportano di tutto: barili, intere famiglie, animali di vario genere (maiali e galline vanno per la maggiore), vetrate, legname, cibo, cestini in vimini, attrezzi da lavoro, tubi lunghi cinque metri e tanto altro.
Arrivati a My Tho, prendo parte a un’escursione sul Mekong di tre ore, dove visitiamo i villaggi lungo le sponde del fiume, i luoghi dove si produce l’olio, il miele e le caramelle di cocco. La guida ci spiega come vengono prodotti e ci parla della vita dei locali.
Ci dirigiamo poi verso un altro paesello, Cai Be, per visitare i mercati galleggianti. Ad un certo punto ci fermiamo per controllare la direzione e si ferma un ragazzo vietnamita che ci offre di accompagnarci a destinazione, cambiando totalmente i suoi piani.
Brum brum paf paf. La mia moto si ferma in mezzo alla strada, e i restanti dieci chilometri li percorro a motore spento con il nostro nuovo amico che mi spinge con il piede fino al seguente meccanico – per fortuna si trovano in ogni angolo.
Visto che ormai è abbastanza tardi rimaniamo insieme per tutta la sera con Zany, il nostro nuovo amico, ceniamo e condividiamo una guest house, e parecchie birre ovvio.
Chiediamo informazioni per visitare i mercati galleggianti il giorno dopo e ci viene detto che per vivere a pieno l’esperienza con i locali bisogna svegliarsi alle quattro del mattino. Il giorno dopo ci svegliamo di primo mattino, ma dei mercatini neanche l’ombra. C’è stato un errore di comunicazione. Ora capisco che i problemi di comunicazione che abbiamo non dipendono solo da una barriera linguistica…
Zany ci offre di andare a Can Tho, dove ci sono altri mercati galleggianti, ospiti a casa sua. Zany ci parla della sua vita, del suo lavoro, dei suoi sogni e della cultura vietnamita. Tra birre, cibo, partite a carte, peluche (è un storia troppo lunga da raccontare, vi dico solo che ci siamo ritrovati a scaricare un camion pieno di peluche nel bel mezzo della notte), passiamo tre giorni incredibili. Nel frattempo Angy e Noe, le due ragazze con cui stavo viaggiando, decidono di rientrare a Ho Chi Minh prima del previsto, quindi vanno via lasciandomi solo tra le campagne vietnamite. E io, visto che le attrattive turistiche qui scarseggiano, decido passare il restante dei giorni facendo Couchsurfing e vivere un po’ la vita mondana vietnamita.
Saluto Zany e mi dirigo verso Sa Dec, un paese a sessanta chilometri dove incontro Jeanne, una franco-vietnamita, professione meditatrice, che alla domanda “dove vivi?” risponde “nel mio corpo”. Un po’ per sottolineare la sua forte spiritualità un po’ per far capire che non possiede una fissa dimora – così come il sottoscritto. Parliamo di viaggi, di meditazione, buddismo, karma, dharma e compagnia cantante. Facciamo visita alla vicina Xeo Quyt Forest, un posto incantato e rigoglioso, ricoperto di vegetazione pluviale, fiori di loto e esserini alati di ogni tipo. Passiamo tre giorni a chiacchierare, mangiare i manicaretti che la sua amica/donna factotum ci prepara e bere del terribile caffè vietnamita.
Mi rimetto in strada per tornare a Ho Chi Minh e terminare così il mio periplo del delta del Mekong, dopo 750 chilometri.
Brum brum paf paf. La ruota di dietro cede a pochi chilometri dall’arrivo. Proseguo quindi spingendo la moto fino a destinazione. Facendo finta di niente, ritiro il passaporto e scappo via.
Ciao Vietnam.
Alcune curiosità sul Vietnam:
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ho letto da qualche parte che si possono contare più di 15000 piatti diversi in Vietnam, la maggior parte di questi sono zuppe; preparatevi a inzupparvi, a 30°C
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i soldi, cibo e bevande si prostrano con un mano e con l’altra ci si tocca l’avambraccio (l’altezza dipende dal grado di rispetto che avete per la persona che avete davanti). Non abbiate paura.
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nelle strade si suona per allertare il conducente di davanti, non per mandarlo a quel paese
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quando si beve alcolici, si brinda ad ogni sorso: fate sorsi un po’ più lunghi se non volete alzare il bicchiere ogni cinque secondi
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ai vietnamiti piace farsi foto con gli occidentali o semplicemente salutarli, preparatevi a sentirvi dei divi
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ci sono più scooter che persone, ma questo non vuol dire che potete parlarci
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i vietnamiti sono più ospitali di quello che la gente pensi
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il libero campeggio è illegale e i locali sono obbligati a registravi alla polizia se vi vogliono ospitare
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i posti letto sono forse i più economici al mondo, a volte si trovano motel a 1,5$ per persona
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lo stipendio medio di un lavoratore è 200$, fatevi un esame di coscienza prima di cercare di contrattare per risparmiare cinquanta centesimi
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sventolare la mano all’altezza del viso, che da noi vuol dire “sei scemo”, in Vietnam significa “non c’è”, “non è possibile”: non offendetevi
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